Perché Scrivi?
"Il pubblico grida allo scrittore:
- Consolami.
- Rendimi triste.
- Inteneriscimi.
- Fammi sognare.
- Fammi ridere.
- Fammi tremare.
- Fammi piangere.
- Fammi pensare.
Sono davvero pochi eletti quelli che chiedono all'autore: - Fammi qualcosa di bello, nella forma che troverai più giusta, seguendo il tuo spirito...
Il talento viene dall'originalità che è una maniera speciale di pensare, di vedere, di capire e di giudicare.
Ciascuno di noi, secondo la sua natura, si fa un'illusione del mondo, illusione poetica, sentimentale, gioiosa, malinconica, sporca o lugubre... I grandi autori sono quelli che sanno imporre la propria particolare illusione."
È Maupassant che ci parla così, nel suo breve saggio sul Romanzo scritto 135 anni fa, e aggiunge: Bisogna essere davvero molto pazzi, molto spericolati, molto arroganti o molto stupidi per scrivere ancora, oggi!
Ma non c'è scampo, conclude, noi ci ostiniamo a fare della scrittura il nostro lavoro e non possiamo che continuare a lottare contro l'insormontabile sconforto che ci prende di fronte alla pagina. Il talento è una lunga pazienza.
Una rivista americana ha chiesto Perché Scrivi? a un gran numero di scrittori. Ha ottenuto centinaia di risposte; eccone alcune:
"Per offrire uno specchio al lettore. Per soddisfare il mio desiderio di vendetta. Per fare ordine nel caos. Per raccontare me stesso. Per raccontare me stesso in bella forma. Per creare un’opera d’arte. Per dipingere un ritratto della società e dei suoi vizi. Per esprimere la vita inespressa delle masse. Per fare soldi, così da poter deridere quelli che prima deridevano me. Per farla vedere a quei bastardi. Perché creare è umano. Per far credere che sono una persona più interessante di quanto io sia in realtà. Per far nascere l’amore di una bella donna. Per provocare l’amore di un uomo. Per correggere i guasti di una infanzia disperata. Per fare un dispetto ai miei genitori. Per farmi un nome che sopravvivrà alla morte. Per rovesciare l’establishment. Per tener testa alla depressione. Per passare il tempo, anche se sarebbe passato comunque."
Queste risposte sono citate da Margaret Atwood nel suo folgorante libro sulla scrittura "Negotiating with the Dead", "Trattare con i Morti..." (tradotto in italiano da Ponte alle Grazie con un titolo più delicato, "Negoziando con le Ombre").
È davvero difficile spiegare perché una persona sana di mente lasci la terra ferma e si imbarchi per il viaggio così poco sicuro della scrittura.
Questo viaggio produce in realtà una storia sola che continua a ripetersi ferocemente da quando l'uomo ha cominciato a raccontare, quella del libro dei libri: Dimmi, Musa, di quell’uomo che molto errò, che molti affanni sofferse, sopra i mari, molti dentro al suo cuore...
Woody Allen, in "Zelig": Ho dodici anni, corro in una sinagoga. Chiedo al rabbino il significato della vita. Lui me lo dice, ma me lo dice in ebraico. Non capisco l’ebraico. Gli chiedo d’insegnarmelo ma lui vuole 600 dollari a lezione.
Non si insegna il senso della vita, si può insegnare una lingua. Ma costa caro impararla fino a poter discutere del “senso” che cerchiamo. Più caro ancora imparare a essere scrittore.
La maggior parte delle persone è segretamente convinta di avere un libro dentro di sé. C’è del vero in questa idea. Sono in molti ad avere delle esperienze di vita che altre persone potrebbero desiderare di leggere in un libro. Ma non è la stessa cosa che essere uno scrittore. O, per dirla in modo più sinistro, sogghigna la Atwood: chiunque può scavare una fossa in un cimitero, ma non tutti sono becchini.
Ha ragione, essere becchini richiede fatica, controllo e precisione. E compassione. È anche un ruolo profondamente simbolico. Se sei un becchino, non sei solo una persona che scava. Sei uno che tratta la morte e il dolore. È dunque un lavoro penoso che ti mette di fronte ai momenti cruciali della vita, della tua in primis, e di quella degli altri, Guardi, attorno a te, donne e uomini che soffrono, li guardi piangere ma non puoi piangere con loro, se lo fai sei patetico. Li guardi ridere ma non puoi ridere con loro, se lo fai sei banale. Il tuo lavoro deve essere eseguito con grande distacco. Nell’impegno della scrittura si abbracciano i due opposti: partecipazione e cinismo. Vedo, a questo proposito, Molière seduto per interi pomeriggi nell’anticamera del barbiere come un qualunque cliente in attesa. La testa china, può sembrare appisolato ma ha un quaderno sulle ginocchia e una penna d’oca e una boccetta d’inchiostro. Ascolta e trascrive le voci, le parole, le emozioni di figure sconosciute che si aggirano in quello spazio alla ricerca di abbellire la propria immagine, di ordinarla e intanto si confidano, si interrogano, si rivelano. Sono i morti che ritroveranno la vita sulle assi dei palcoscenici calpestati da quel grand’uomo.
Tutti gli scrittori devono passare dall’adesso al c’era una volta. Anche se questo c’era una volta riguarda un’ora fa. Anche se il morto è ancora caldo nel suo letto. I morti vogliono essere raccontati, dice la Atwood, ed è così vero. Chi ha la malattia della scrittura è assordato dai richiami dei morti che vogliono parlare ed è terrorizzato dall’ingiustizia dell’oblio.
In fondo è la nostalgia che muove la scrittura. Nostalgia di quello che è stato e non è più, nostalgia di quello che potrebbe essere e non è. "Nostalgia", dal greco, "dolore del ritorno". Ritorno a quello che uno/una ha immaginato ma non ha vissuto. E ritorno a quello che ha vissuto senza essere stato/stata in grado, a suo tempo, di immaginarlo.
Lo scrittore è, però, anche l'opposto del becchino, scava sì una fossa ma non per seppellire bensì per riportare in vita.
La risposta migliore alla domanda Perché scrivi? è forse questa: Per fare luce nel buio. Il “mio” buio. Il “nostro” buio.