FUORI DAL CIELO
Un fratello e una sorella gemelli, giovanissimi. Incontrano l’amore, la letale malattia di lei, la perdita dei sogni, il dolore. Lui, il sopravvissuto testimone del calvario della sorella, racconta il suo difficile viaggio verso la maturità.
da LA REPUBBLICA
… romanzo di grande intensità e di grande tenuta sia psicologica che, per così dire, “visiva” (…) un lungo itinerario reso da Battiato con pagine non facilmente dimenticabili.
(Corrado Augias)
da L’UNITÀ
(Andrea Carraro)
… il bel romanzo d'esordio "Fuori dal cielo" di Giacomo Battiato sfugge a etichette e classificazioni e rende ardua anche una esaustiva interpretazione e critica grazie alla sua originalità stilistica e a una feconda facoltà di spiazzare il lettore con improvvisi mutamenti di rotta (…) così pure il senso ultimo, vagamente romantico, del romanzo (binomio amore e morte, violenza e irrazionalità delle passioni, sofferenza dell'uomo racchiusa nella crudeltà della natura) e il suo stile che procede per associazioni e simbologie oniriche, salti cronologici, paiono coagularsi attorno all'ineluttabile tragico destino di una ragazza...
da L’INDIPENDENTE
(P. M. de Pozel)
… il romanzo è “passionale” carico delle contradditorie emozioni tipiche dei primi approcci all’amore di un ragazzo. Quattro donne sono la causa della sua angoscia e frutto della sua passione, una delle quali è la sorella gemella (…) Battiato presenta questa “intesa particolare” in uno stile poetico che allude a tratti alla tragedia greca…
Due frammenti...
Mi avvicino alla porta. Il campanello suona ancora. In punta di piedi metto l’occhio allo spioncino e faccio un balzo indietro. Leonora è lì, il suo volto è un mascherone di sangue. Apro. Lei ha gli occhi dilatati ed è tesa verso di me con un’espressione inerme. Sussurra, con un filo di voce:
“Scusami...”
Non capisco, temo qualcosa di terribile.
Leonora respira con fatica, si appoggia a me:
“Ti voglio bene, scusami...”
La prendo sotto le ascelle e, con una forza che non ho, la trascino nel bagno dove lei vuole andare. Il vestito è stracciato e macchiato di nero.
Leonora mi fa segno di aprire l’acqua della vasca e intanto si spoglia. I vestiti sporchi e laceri cadono ai suoi piedi. La guardo: le carni sono escoriate sulle cosce, sulle ginocchia e sulle braccia come sul viso. Sangue raggrumato e sangue che ancora scorre. Prendo una bottiglia di acqua ossigenata e gliela verso addosso. Leonora si copre di schiuma, di bolle, una bava rosata mentre le ferite friggono. Dilata gli occhi per il bruciore e mi ripete:
“Scusami...”
Forse sorride, un accenno di sorriso. Perché seguita a chiedere scusa?
Entra nell’acqua che si tinge di rosso.
“Tienimi il braccio, ho paura di svenire.”
Ubbidisco. Leonora lascia affondare anche la testa sott’acqua, ci rimane per alcuni secondi. Bolle d’aria escono dalla sua bocca pallidissima. Riaffiora.
Dopo qualche minuto si trascina faticosamente fuori dalla vasca e si sdraia supina in terra, sull’asciugamano. Chiude gli occhi. Mi allontano di qualche passo. Il suo bel corpo nudo di sedicenne è lungo, affusolato, pieno. Un poco più grasso e gonfio del dovuto per via del Cortisone di cui l’hanno imbottita. Sulla pelle bianchissima sono immobili le gocce d’acqua, tra i peli biondi attorno all’ombelico, sulle areole pallide, sul collo. Ora guardo il sesso. L’osso pubico è spinto in avanti, così mi pare, in una innaturale profferta di quelle labbra. Nuda e assopita per terra, la desidero.
Infine ho preso un asciugamano e l’ho coperta, l’ho asciugata delicatamente per non fare pressione sulle ferite, quasi temessi di toccarla anche attraverso la spugna. L’ho aiutata a sollevarsi, lei si è aggrappata al mio collo, ha poggiato i piedi per terra e così l’ho trascinata fino a questo letto.
Mi sono seduto accanto alla mia gemella, in silenzio.
“Non dire niente a papà e mamma.”
Leonora mi guarda e mi stringe una mano.
“Perché?” chiedo io ma voglio dire: che cosa è successo?
“Si preoccupano e si spaventano. Non serve. È stato un momento.”
Mi fissa: guardo i suoi occhi e ho il cuore in tumulto.
“Ho passato due ore in cima al Duomo. Guardavo giù, mi sedevo tra le guglie. Poi guardavo ancora giù. E mi risedevo tra le guglie. A un certo punto hanno cominciato a cantare in chiesa e il coro arrivava fin lì. Poi passavano gli aerei. Poi arrivava la nebbia. Guardavo giù e mi sedevo tra le guglie. Cento volte l’avrò fatto. Un guardiano s’è accorto dei miei movimenti e mi teneva d’occhio. S’è avvicinato, mi ha detto che aveva famiglia, che non lo mettessi nei guai...”
Ascolto, capisco e non capisco. Mi pare di sentire il coro del Duomo: «Benedicta es, Virgo Maria, in saeculorum saecula...» Lei seguita a parlare:
“... Allora sono scesa, ho camminato fino a che ha fatto buio. Ho visto arrivare il ventisette e mi ci sono buttata sotto.”
Il sangue sulla fronte si è coagulato.
Io sento il dolore di quell’urto, sento sul mio viso il ferro di quel tram, sento lo stridore dei freni e le carni lacerate, sento sulle ginocchia le pietre aguzze della massicciata. La guardo con gli occhi appannati.
“Ho capito subito che non ero morta. Sono rimbalzata. Ho capito che non s’erano neanche rotte le ossa. Allora sono scappata via. Sono corsa qui, come ho potuto. Scusami...”
È scappata nella notte come un gatto travolto che esce da sotto il veicolo. È corsa nel buio senza sentire male.
A quel racconto io ho perduto l’adolescenza e la giovinezza e sono diventato vecchio. Insieme a lei sono stato privato della libertà e della gioia, insieme a lei mi sono trovato fuori dal cielo.
Mi avvicino alla finestra. La stanza all’interno è spoglia. C’è soltanto un tavolino davanti al quale una ragazza sta ultimando un castello di carte. Mi volta le spalle; colgo a malapena il suo profilo. Il gesto di posare la carta in cima al castello è lentissimo e delicato, le sue labbra sono serrate per la concentrazione. Cerco invano di decifrare i tratti di quella giovanissima donna che non si accorge della mia presenza; cerco delle somiglianze, le cerco nella memoria e nella fantasia, le cerco nell’abbigliamento e nei suoi colori, nulla. Ho i suoi medesimi anni, mi pare invece di essere da lei così lontano e vecchio. Non capisco come si sia potuto consumare il breve/infinito tempo che mi separa da quella ragazza.
“...Se potessi stringerti una volta, una sola volta sul cuore, tutto questo vuoto sarebbe colmato!”
La ragazza non mi sente; le sue belle mani si allargano come per proteggere la costruzione di carte.
Senza fare rumore accosto le ante della finestra perché un colpo di vento non distrugga il castello. Così facendo, vedo comparire sul vetro il mio riflesso. Con meraviglia vi leggo improvvisamente, per la prima volta, tutte le cicatrici.
Al di là del vetro la ragazza si volta e mi guarda. La riconosco ma non so ancora come rivolgermi a lei. Un giorno, forse, avrà un nome.